Tel Aviv, cartolina dal futuro
Tel Aviv: cosmopolita e spensierata
La chiamano “la città del peccato”, in netta e inequivocabile contrapposizione con la sorella maggiore Gerusalemme, che invece è la città santa di ben tre religioni.
La chiamano anche “la Los Angeles o la Miami d’Israele”, perché oltre alle temperature – che a Tel Aviv anche a Novembre raggiungono tranquillamente i 30 gradi – con queste città condivide il mood: cosmopolita, spensierato, sportivo, healthy.
Le ampie spiagge bianche dove si frangono onde ideali per il surf si stagliano contro uno skyline in costante mutazione (il mercato immobiliare in città è particolarmente florido).
Città dei giovani e del divertimento
Tel Aviv è famosa in tutto il mondo per la sua nightlife, ma anche per il fatto di essere una delle città più “giovani” al mondo: gli abitanti di Tel Aviv hanno in media tra i 30 e i 35 anni.
Sono loro, i giovani di Tel Aviv, quelli che sfrecciano per la città in monopattino (il mezzo di locomozione locale per eccellenza), che corrono sul lungomare, che fanno la spesa a ogni ora del giorno e della notte con le cuffie nelle orecchie in uno dei tanti AM:PM, supermercati aperti 24 ore su 24.
Sono ragazzi dai fisici scolpiti e dai lineamenti mediorientali e ragazze vestite alla moda occidentale.
Sono quelli che mangiano vegano (ecco un altro primato di Tel Aviv: pare sia una delle città con la maggior percentuale di vegani al mondo).
E in molti appartengono alla comunità LGBT: Tel Aviv è città gay friendly per eccellenza.
Sono quelli che vogliono “imitare gli americani”, come mi ha detto un tassista che lavora in città ma vive fuori, perché a Tel Aviv c’è troppo caos e costa tutto troppo.
È vero, è una città molto cara, dimenticatevi hotel e ristoranti a buon mercato.
La sensazione è di trovarsi proiettati in avanti di qualche decennio, in una città popolata di hipster che difficilmente hanno più di 40-45 anni.
È straniante e affascinante al contempo.
Ci si rende conto subito che c’è qualcosa di anomalo: sul lungomare, per le strade della città, manca la componente “over”, non solo mancano gli anziani, ma mancano anche i 45-50-60 enni.
Ci sono giovani madri e giovani padri, e la città mette a disposizione servizi impeccabili per i bambini, ma gli adulti sono una specie rara.
Ci sono cantieri ovunque, la città è in continua costruzione, per questo spesso la polvere e la sabbia si mescolano allo scintillio del vetro e dei grattacieli, alla pulizia degli edifici Bauhaus per i quali Tel Aviv è famosa, che l’hanno resa patrimonio UNESCO nel 2003 con il soprannome di “città bianca”.
Tel Aviv: storia recente, utopie e contrasti
Tel Aviv è città giovane anche perché è nata solo nel 1906, evolvendosi verso nord dal porto di Jaffa – oggi ufficialmente la zona araba e “antica” della città.
A dare il via a questa colonizzazione fu Meir Dizengoff, che infatti fu il primo sindaco della città.
Insieme a sessanta famiglie ebree provenienti dalle attuali Ucraina e Moldavia, Dizengoff voleva fondare una comunità autonoma ebraica ispirata al modello inglese di “città-giardino”, con numerosi parchi pubblici e spazi aperti.
L’idea di una nuova nascita è insita anche nel nome stesso della città: Tel Aviv infatti significa “Collina di Primavera”, dal titolo tradotto in ebraico del romanzo utopico “Altneuland” di Theodor Herlz (ma anche con riferimenti biblici).
È evidente che in tutta Tel Aviv c’è qualcosa che manca, e questo qualcosa è la storia: ma in compenso c’è tanto di altro.
Tel Aviv è il potenziale, il futuro, la gioventù. E’ il contrasto tra l’Israele antica e complicata, dove tutto si ferma per lo Shabbat, il sabato – e le nuove generazioni che vivono all’occidentale 7 giorni su 7. E’ un attrito costante come quello tra le onde e la sabbia.
La dimensione della possibilità
Tel Aviv è un luogo enigmatico, quasi ipnotico, dove la dimensione più forte è quella della possibilità: non a caso è una delle città più amate da nomadi digitali e startupper (che probabilmente contribuiscono ad abbassare l’età media di abitanti che poi forse, crescendo, si sposteranno altrove), ma anche dagli artisti (murales e gallerie d’arte si trovano un po’ ovunque).
Eppure, ancora più straniante è il contrasto tra la tranquillità della vita a Tel Aviv e le notizie allarmanti provenienti dalla Striscia di Gaza. Il mare, il sole, i ragazzi in skate da un lato e dall’altro i luoghi pubblici chiusi per un attacco missilistico più preoccupante del “solito”: è questo che ho vissuto sulla mia pelle nei primi giorni in Israele.
Dovevamo noleggiare un’auto ma l’agenzia era chiusa, con un foglietto appiccicato sulla porta che parlava di “emergenza militare” e un call center che non era d’aiuto.
E ancora musei, scuole, edifici pubblici chiusi per “rocket attack”, come spiegano seraficamente gli inservienti, senza troppo cruccio. Perché qui gli attacchi missilistici e il suono della sirena d’avvertimento sono consuetudine, anche se a volte le cose si aggravano.
Mentre il visitatore alle prime armi si allarma, i giovani di Tel Aviv continuano a sfrecciare indisturbati sul lungomare, e i tassisti dicono di sentirsi sicuri, e che “Israele è un Paese forte e Dio continuerà ad aiutarlo”.